Qualcuno martella sulla porta, il cane ringhia, una voce grida: “Signora, Signora, apra!” Sembrerebbe una questione di vita o di morte ma è soltanto uno zingaro che vuole vendermi dei mirtilli. Questa volta non li posso prendere: non ho tempo di farne nulla fino alla prossima settimana e il congelatore è ancora pieno di quello che gli ho comprato in passato: frutti di bosco, pescetti da friggere, funghi. Se ne va a mani vuote, piuttosto arrabbiato – sono la sua cliente migliore in paese e gli ci vorrà tempo per far fuori il suo secchio di frutti.
Non ho la minima idea di dove abiti: probabilmente in un paese vicino visto che in teoria qui non ci sono rom. A pochi chilometri una comunità zingara vive della terra che coltiva come una volta, senza mezzi meccanici (benché abbia visto recentemente un piccolo trattore), con l’aiuto dei cavallini locali capaci di tirare carichi di fieno o mais talmente imponenti da far letteralmente scomparire i carretti. Gli uomini portano tutti una specie di bombetta a tesa larga e le donne gli abiti colorati che le rendono immediatamente riconoscibili – le donne sposate, in più, hanno sulla testa un fazzoletto assortito alla gonna, il batik.
Anche vestiti normalmente, però, gli zingari si riconoscono per il colore scuro della pelle, che rivela le loro origini probabilmente arioindiane. In effetti sembra che verso la fine del Medioevo dei clan di intoccabili siano arrivati nei Balcani dall’India settentrionale, al confine con il Pakistan, passando per l’Armenia e l’Iran.
Benché siamo abituati a vederli soltanto come dei delinquenti gli zingari, diventati servi dei monasteri, dei boiari o dell’imperatore e rimasti di proprietà di questi fino all’abolizione della schiavitù, a metà Ottocento, sono sempre stati considerati una manodopera a basso costo abile in molti mestieri manuali, oltre che ottimi musicisti e gente di spettacolo. A seconda della loro specialità – sempre caratteristica di un clan – erano divisi in ursarii (circensi che spesso si esibivano con gli orsi), caldararii (fabbricanti di paioli in rame), fierarii (che lavoravano il metallo), crastarii (mercanti di cavalli), spoitorii (stagnini), rudarii (che lavoravano il legno), argintarii (orafi e argentieri), boldenii (fiorai), zlatarii (cercatori d’oro) e via di seguito.
Se la coabitazione non fila sempre liscia – sono accusati di non volersi integrare e di seguire soltanto le loro leggi – siamo però lungi dalla guerra aperta che li oppone agli autoctoni dei paesi occidentali. Al bar non è raro sedersi al tavolino accanto al loro o trovarli alle casse del supermercato, e un matrimonio rumeno non sarebbe tale se gli zingari non rapissero la sposa per poi rivenderla allo sposo dopo un mercanteggiamento degno di un suk.
Il cuore della loro società è la famiglia. La famiglia stretta, innanzi tutto – marito, moglie e figli – che in generale si forma molto presto, ben prima dell’età legale per sposarsi. La famiglia allargata, poi: nonni, fratelli, sorelle. E così via, tendendo formare comunità unite da legami di sangue o affinità.
I loro re ed imperatori (generalmente autoproclamati ed in conflitto tra loro) hanno spesso rivendicato la costituzione di uno stato zingaro, in India o in Somalia, arrivando anche ad emettere passaporti.
Nell’attesa di convincere le autorità gli zingari continuano a vivere nelle loro case, miserabili o lussuose (su queste ultime si sentono voci di ogni genere … l’unica certezza è che dimostrano l’esistenza di una memoria genetica visto che evocano l’Oriente che hanno abbandonato oltre mille anni fa!).
(continua … forse)