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Vita al castello e pane vecchio

 

Al pari della villa romana, il castello dev’essere autosufficiente. La dimora del castellano è circondata da tutto ciò che serve per vivere in maniera più o meno confortevole a seconda del rango del signore, della situazione politica e di altri fattori. Si vive di quello che la terra produce nel corso delle stagioni. Checché se ne pensi la vita al castello non è (e non è mai stata) quella da sogno descritta nei romanzi. Carlo d’Orléans, il grande poeta francese del Quattrocento che fu nipote e padre di re dovette un inverno limitare il suo «shopping» a un paio di mezzi guanti, tanto i raccolti erano stati scarsi ed alti gli oneri che gli incombevano.

Chatelaine, un gioiello indispensabile Ciò che producono i campi in estate e le carni essiccate ed affumicate degli animali che si macellano soltanto in certi periodi dell’anno dev’essere immagazzinato adeguatamente e gestito con criterio, perché deve durare fino al raccolto successivo. Dispense e magazzini sono quindi chiusi a chiave, e la chiave è affidata a un intendente o alla castellana, che la porta sempre con sé, attaccata a una catenella che non toglie mai dalla cintura: la châtelaine (in epoca più recente il nome passa ad indicare una catenina da collo alla quale viene appeso tutto quello che rischia di perdersi : chiavi, orologio, occhiali…).

Nulla deve andare sprecato : né acqua, né cibo, né abiti, né biancheria, né oggetti – e questo dura fino alla nascita della nostra società dei consumi, che comporta la fine delle buone abitudini di una volta.

Segue quasi un secolo di noncuranza consumistica e di spreco indiscriminto delle risorse naturali. Soltanto alcuni irriducibili resistono, ma da qualche anno il loro numero non fa che aumentare.

Che cosa spinge il consumatore moderno ad adottare abitudini a lungo dimenticate?

Per alcuni si tratta di un problema etico; per altri, di una necessità economica. In ogni caso la quantità delle preparazioni casalinghe è in aumento e si assiste alla rinascita delle officine di riparazione di oggetti che sembravano destinate a scomparire. Tra gli Americani, quegli stessi che hanno inventato la società dei consumi e l’apriscatole elettrico incomincia perfino a manifestarsi una tendenza a far asciugare i panni sul filo, magari all’aperto, piuttosto che nell’asciugatrice…

L'indispensabile per il cucitoOrmai in internet si trovano moltissime informazioni su come vivere «zero waste» (senza sprechi) e questo è positivo, anche se a volte i suggerimenti sembrano difficili da mettere in pratica nella vita quotidiana, tanto si è persuasi che il tempo e gli sforzi necessari sarebbero eccessivi. In realtà i progressi, dall’invenzione della cucina a gas, sono tali da permetterci di fare molte cose senza sentirci intrappolati in un modo di vivere difficile ed obsoleto. Un buon robot da cucina, una scatola da cucito, una cassetta degli attrezzi, un minimo di competenze, un po’ d’organizzazione indispensabile e soprattutto un po’ di buon senso possono fare miracoli.

Pensiamo al pane, per esempio: da qualche anno – sarà che se ne ha abbastanza delle pagnotte di polistirolo espanso avvolte in plastica inquinante vendute nei supermercati, sarà che cresce la voglia di mettere da parte la tecnologia per scaricare un po’ di tensione facendo qualcosa di manuale – il numero di chi panifica in casa è in crescita, e questo è un bene. Ma sia che lo si prepari in casa, sia che lo si compri, quasi sempre ne restano piccole quantità di cui non si sa che fare.

Che cosa si fa del pane vecchio, al castello ?

Be’, di tutto di più.

Come prima cosa lo si priva della crosta (preferibilmente) e lo si stende su una rete o un’asse per farlo asciugare bene; poi lo si immagazzina in dispensa in un sacco di carta o di stoffa (al castello se ne cuciono con gli scampoli recuperati dalle lenzuola lise, dalle tovaglie inservibili, dai resti di tessuto – vedremo più avanti).

Sacchi di pane vecchio

Il pane secco è l’elemento di base del primo dei nostri «menù a tendina» (o a cascata).

Appena si trova un po’ di tempo si prepara il pangrattato (panpesto, pane grattugiato, pane macinato, vedete un po’ voi).

Per farlo – essendo cambiati i tempi da quando si era costretti a distruggersi le dita su una grattugia di ferro – si usa il robot da cucina con la ciotola del mixer e una grattugia fine, quella che gli anglosassoni chiamano zester: in men che non si dica la ciotola si riempirà di pangrattato.

A questo punto la cuoca in vena di perfezione prende un setaccio e separa il pangrattato fine da quello grosso, sistemando l’uno e l’altro in boccali separati e pulitissimi. Poi stacca un pezzo di nastro per mascheratura (sì sì, quello usato dagli imbianchini, magari nella versione blu! E’ facile da staccare, a differenza delle belle etichette che restano incollate come patelle: gli chef lo adorano quando si tratta di identificare un contenitore che domani servirà per un prodotto diverso), lo incolla sul boccale e scrive che cosa contiene (pangrattato grosso o fine) e la data.

I boccali vengono poi riposti in dispensa insieme al sacco del pane (se ne resta).

Tutto qui. Uno di questi giorni vedremo di farne qualcosa. Un po’ di pazienza…