Nella soap-opera ante litteram della mitologia (Dallas, Beautiful, andatevi a nascondere…) Venere, dea della bellezza e dell’amore (mica per niente!) e suo figlio Cupido occupano certamente un ruolo di primo piano. Tra le varie leggende che li riguardano vale la pena di ricordarne due.
La prima vede Venere sposata più o meno con la forza a Vulcano, che non solo è brutto e zoppo, ma ha anche un caratteraccio. Dal lato suo la bella è un tipo focoso e poiché quello zotico di suo marito le fa un po’ schifo chiede a Giove si aiutarla a sbarazzarsene. Giove però – che, secondo alcuni, è suo padre mentre secondo altri sarebbe nata da una goccia del sangue di Urano al quale il dolce figlioletto Crono aveva asportato i gioielli di famiglia con un falcetto fornito da mamma Gea (giusto per dare un taglio alla concorrenza, si potrebbe dire) e li ha gettati in mare – ha paura di una sola cosa: sua moglie Giunone che (per rendere la storia più interessante) è anche la mamma di Vulcano e di conseguenza la suocera di Venere. Mi seguite?
E non è finita…
Possiamo immaginare il tripudio della dea che la buona creanza obbliga a rimanere sposata a Vulcano. Ma che importa, non è certo questo che impedirà alla nostra eroina di guardarsi intorno. Nell’Olimpo in cui vive finisce per scovare Marte che, inutile dirlo, è anch’egli figlio di Giove e di Giunone, e pertanto fratello di Vulcano (lassù si fa tutto in famiglia). Nella torrida relazione che ne consegue interviene un terzo – Helios, che, in via eccezionale, è soltanto un cugino; questo, che non ha null’altro da fare che andare a spasso per il cielo dal mattino alla sera, ficca il naso ovunque: è così che scopre in nostri due colombi in piena azione e corre subito a fare la spia a Vulcano, il quale li intrappola in una rete e li espone ai commenti salaci del resto della famiglia da lui invitata a sfilare davanti al talamo dove sono imprigionati.
C’è da pensare che l’episodio non soltanto non abbia migliorato il rapporto tra i coniugi ma abbia anche minato l’intesa tra i due amanti visto che Venere s’innamora prima del mortale Anchise – per il tempo necessario per fabbricare un semidio: Enea; poi del bell’Adone, mortale pure lui, nato dagli amori del re di Cipro e della figlia (la famiglia prima di tutto!).
Se il legittimo consorte si è rassegnato di fronte ai facili costumi della sua metà, Marte, al contrario, ha delle crisi di gelosia e un bel giorno ne ha abbastanza. Durante una conversazione che possiamo immaginare animata dice a Venere che poiché non è in grado di comportarsi come si deve ucciderà l’altro suo amante, e la questione sarà risolta una volta per tutte (o almeno fino al prossimo in lista).
Alla dea viene un colpo e corre ad avvertire Adone. Per la strada inciampa, cade in un rosaio e si punge. Le gocce di sangue colorano di rosa i fiori, che fino a quel momento erano bianchi.
La seconda leggenda narra di una cantonata di Cupido. Il figliolo di Marte e di Venere è amico di un discutibile personaggio ben noto sotto il nome di Bacco, uso ad inghirlandarsi di rose, di cui si diceva che avessero la capacità di dissipare i fumi del vino. Un bel giorno gli porge una coppa di vino un po’ troppo piena. Il vino si spande per terra e – miraaacolo! – ne nasce un bel rosaio dai fiori vermigli.
Sono molte le leggende legate alla rosa, fiore che abita l’immaginario collettivo da decine di migliaia di anni. Se per i cinesi (che la coltivano da oltre 5000 anni) condivide il titolo di regina dei fiori con la peonia, regna invece incontrastata sui giardini pensili di Babilonia che ha conquistato dopo aver invaso l’India ed essersi diffusa nel Medio Oriente.
Racconta Erodoto che i primi rosai furono coltivati in Europa all’epoca di Alessandro Magno, probabilmente importati da mercanti fenici o greci. Altri mercanti s’incaricheranno di farli conoscere al resto dell’Europa.

Non si creda però che le rose, ossia i fiori dei rosai, siano sempre state come le conosciamo oggi. Inizialmente erano fiori semplici – qualche petalo appena – bianche o gialle. Di mutazione spontanea in mutazione spontanea ecco che si ottiene una tavolozza più ricca: rosa pallido, poi rosa carico, poi rosso e tutti gli altri colori, fino al nero. Perché, sì, esiste una rosa che ha i petali di un nero profondo: cresce soltanto in un posto: ad Halfeti, in Turchia, sulle rive dell’Eufrate. Si tratta probabilmente di una mutazione spontanea della rosa «Louis XIV», ibridata da B.A. Guillot nel 1859. Il clima ed il terreno dell’Anatolia hanno trasformato il fiore dai petali rossi in una meraviglia nera che il cambiamento climatico rischia di far scomparire (ma che nell’attesa fa le vacche grasse della popolazione locale).
Il numero di petali si moltiplica, le specie si moltiplicano e si ibridano volentieri cosicché oggi è difficile sapere quale fosse l’antenato di tutte le piante che esistono.
Sappiamo invece che la rosa è assai popolare tra i Geto-Daco-Traci, popolazioni di origine indoeuropea che occupano un vasto territorio tra la Turchia ed i Carpazi. La loro struttura sociale è organizzata in caste che hanno al vertice dei re sacerdoti che sono al contempo capi dell’esercito. All’inizio del III secolo A.C. il re dei Geti Dromichete viene sepolto in un mausoleo decorato di rose scolpite. Le rose sono presenti anche sulle metope del Trofeo di Traiano (pendant orientale della Colonna Traiana che possiamo ammirare a Roma) sul campo di battaglia di Adamclisi dove fu sonfitto il re dei Daci Decebalo, e sull’Arco di Trionfo di Galerio a Salonicco – Galerio, imperatore romano, era in effetti di origine dacica.
Anche la chiesa del monastero di Curtea de Arges è ornata di rose. La pianta è allora già ben radicata nel cuore di bulgari e rumeni che nel corso degli anni hanno imparato a trarne ogni genere di vantaggi: oltre alla bellezza dei fiori, che ricamano perfino sulle camicie, ne apprezzano gli usi in cucina e in farmacia – se ne ricavano infatti olî essenziali di grande efficacia, sciroppi, confetture ed altro.

La rosa ha avuto un gran successo anche in Occidente, tanto che la si ritrova in certi stemmi, tra cui quello degli York e dei Lancaster che si contesero a lungo la corona d’Inghilterra – finché Enrico Tudor conte di Richmond, figlio di una Lancaster e marito di una York, non salì al trono con il nome di Enrico VII. Primo re della dinastia Tudor, unì la rosa bianca di York alla rosa rossa di Lancaster creando quella bicolore che divenne il simbolo dell’Inghilterra.
Nella cittadina di Hildesheim, in Bassa Sassonia, una rosa canina si arrampica sul muro dell’abside del Mariendom. Le cronache ne attestano la presenza da oltre 400 anni facendone il rosaio documentato più antico, ma la storia popolare lo fa risalire a molti secoli prima, all’epoca del Rosaio miracoloso.
Si narra infatti che nell’815 l’imperatore Ludovico il Pio, che stava cacciando, si sia improvvisamente ritrovato solo in mezzo alla foresta. Voleva tornare sui suoi passi, ma dinanzi a lui comparve un cervo maestoso. Ludovico si lanciò all’inseguimento, ma sia lui che il destriero erano stanchi, cosicché il cervo riuscì a sfuggirgli. Cavallo e cavaliere furono costretti a fermarsi. Dopo aver invocato aiuto senza successo, l’imperatore si tolse dal collo la croce che portava sempre e la sospese al ramo di un albero, pregando la Vergine Maria affinché qualcuno venisse a salvarlo. Poi, sfinito, si coricò e si addormentò.
Al risveglio il paesaggio attorno a lui era coperto di neve, ma sotto il Crocifisso era spuntato un rosaio carico di fiori. L’imperatore fece allora voto di costruire una chiesa – il Mariendom attorno al quale si sviluppò poi la città di Hildesheim. Durante la costruzione si fece in modo di non danneggiare il rosaio miracoloso che, negli anni, finì col ricoprire l’intero muro.

Lasciando perdere le pie leggende, si pensa che la rosa di Hildesheim abbia almeno 700 anni. Nel 1945 il miracolo del rosaio assunse un significato ben diverso: il 22 marzo di quell’anno un bombardamento alleato colpì la chiesa, che si incendiò; il rosaio fu distrutto dal fuoco e sepolto sotto le macerie, e fu creduto morto. Otto settimane dopo, tuttavia, dalle radici carbonizzate spuntarono 25 germogli che ben presto riconquistarono l’abside restaurata e divennero l’arbusto che ancora oggi si ammira.
continua…