Il carnevale di Binche: storia o leggenda?
Nel 1549 l’imperatore Carlo V prevede di cedere le sue terre dei Paesi Bassi austriaci al figlio Filippo. Contrariamente al padre il giovane principe è nato e cresciuto in Spagna, uscendo dalle sue frontiere soltanto l’anno precedente, per recarsi a Milano, ducato di cui Carlo l’ha investito. Da lì raggiunge poi le XVII Province, ossia le terre della sua bisnonna Maria di Borgogna, dove Margherita, sorella di suo nonno Massimiliano d’Asburgo, ha cresciuto suo padre insieme al fratello ed alle sorelle.

Carlo V sa che non sarà facile far accettare il suo erede ai fiamminghi, visto che non lo conoscono e che non parla bene la loro lingua. Decide quindi di accompagnarlo a Bruxelles e chiede alla sorella Maria d’Ungheria di ideare una strategia che permetta di metterlo in buona luce.
Maria d’Asburgo, regina d’Ungheria in virtù del suo breve matrimonio con Luigi II Jagellone è, secondo il fratello, una donna orgogliosa, di intelligenza pronta, diretta, esuberante. I suoi contemporanei ne apprezzano le capacità politiche e militari, l’amore per le arti e le sue disposizioni diplomatiche. Pur essendo una cattolica fervente è incline alla tolleranza, tanto che al momento di subentrare alla prozia Margherita nelle funzioni di reggente dei Paesi Bassi le impongono di separarsi dalla sua corte troppo riformista.
In quell’estate del 1549 si presenta a Carlo un cavaliere errante, latore di un invito a recarsi a Binche – cittadina in cui Maria ha fatto costruire un castello e nelle cui vicinanze possiede un padiglione di caccia – per liberarla da un incantesimo imposto dal mago Norabroc.
In realtà Maria ha organizzato festeggiamenti sontuosi per presentare il nipote ai notabili ed ai magistrati della regione: giorni e giorni di tornei, giochi e balli mascherati, tanto magnifici che i Trionfi di Binche hanno dato origine al un modo di dire spagnolo: “Mas bravas que las fiestas de Bains” – più sontuosi delle feste di Binche.
Tre secoli dopo un giornalista, vedendo sfilare i Gilles di Binche che indossano i cappelli di piume di struzzo, crea la leggenda che li fa discendere dagli Incas che avrebbero sfilato in occasione dei Trionfi con un copricapo piumato.

Ma chi sono questi Gilles?
Sono citati per la prima volta in testi del 1795, descritti come personaggi che si rivoltano contro il regime politico francese del Direttorio, che intende vietare di indossare maschere. Da allora sono diventati i personaggi più noti del Carnevale di Binche, classificato patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO.
Il loro successo è immediato e fa sì che i Gilles si moltiplichino in altri carnevali della regione, e che siano spesso invitati a partecipare a quelli di Bruxelles e di altre città. Tuttavia, nonostante quanto si dice in questo caso, non si tratta mai di Gilles di Binche, poiché questi non valicano mai i confini della città e non sono autorizzati ad indossare il caratteristico costume altro che il martedì grasso.
La cittadina di Binche prende il carnevale molto sul serio ed i Gilles ne sono soltanto l’elemento più visibile. La loro partecipazione è il risultato di un lungo lavoro di squadra in seno a una società. Tra l’altro, non è affatto facile impersonare un Gille: lo statuto è ferreo – il Gille dev’essere originario di Binche, impegnarsi a non indossare il costume in giorni diversi dal martedì grasso e a non uscire dai confini della città, non ubriacarsi, non sedersi mai e ad uscire soltanto accompagnato da un tamburino.
Nel tempo il costume si è trasformato: ai pantaloni e casacca originali si sono aggiunti gli zoccoli e l’ “apertintaille” (cintura con i campanellini), la maschera e lo stesso caratteristico cappello. I colori attuali sono quelli della bandiera belga, Stato costituito nel 1830. Il cesto metallico dei primi tempi, in cui tenevano pane e mele è stato sostituito nel 1880 con l’attuale cesto di vimini riempito di arance che il Gille getta agli spettatori durante il corteo del pomeriggio.

La giornata dei Gilles
Prima che il corteo si muova il Gille di Binche ha già alle spalle una lunga giornata: in piedi dalle 4 del mattino, si affida all’imbottitore, che ha il compito di dare al personaggio l’apparenza di un gobbo come impone la tradizione, riempiendo il costume di paglia. Gli mettono poi sulle spalle la gorgiera e quindi indossa il berretto bianco e lo assicura con un fazzoletto bianco. Una volta vestito aspetta che arrivi la piccola banda che accompagna la «raccolta» . Quando tutti i Gilles si sono radunati, la tradizione impone loro di consumare una colazione a base di ostriche e champagne. Una volta terminato indossano le maschere di cera che li rendono tutti uguali e vanno nella piazza centrale, la Grand-Place, dove aspetteranno l’avvio del corteo alle 15. Se il tempo lo permette si metteranno in testa il copricapo piumato. Prendono i cesti con le arance (che porteranno rovesciati quando saranno vuoti, in attesa che vengano riempiti di nuovo) e si avviano con gli altri per le vie della città, lanciando frutti fino all’ora di cena; alle 20 ricominceranno il giro, questa volta senza copricapo, prima di tornare alla solita vita.
E altrove?
Le arance sanguinelle dei Gilles lasciano il posto ai frutti non commestibili degli aranci portainnesto alla «battaglia delle arance» del carnevale d’Ivrea, nell’Italia del nord-ovest .
Si tratta probabilmente del più antico carnevale italiano, visto che quelli più noti di Venezia e Viareggio hanno patito lunghe interruzioni o sono nati molto più tardi.

Le origini del carnevale d’Ivrea risalgono almeno al Rinascimento. Già nel Cinquecento i rioni della città gareggiavano in magnificenza con l’organizzazione delle loro feste, popolate da personaggi che paiono il contrario di ciò che sono nella vita vera: gli “Abbà”, vestiti come comandanti della milizia pronti a far rispettare l’ordine e la disciplina, mentre probabilmente sono degli scapestrati.
In epoca napoleonica le varie feste rionali sono riunite in una sola, cittadina, per contenere gli eccessi e controllare meglio la folla. Durante l’Ottocento, quando un po’ ovunque le popolazioni si sollevano contro i tiranni, si aggiungono nuovi personaggi: se Violetta, la “vezzosa mugnaia” rapita dal signore che vuol far uso dello jus primae noctis, che però riesce ad ucciderlo dopo averlo fatto ubriacare, viene presentata alla folla il sabato, fin dal giovedì grasso il Generale, incaricato dell’organizzazione e dell’ordine dei suoi ufficiali, il Sostituto del Gran Cancelliere, gli alfieri e le vivandiere partecipano al corteo storico a cavallo che costituisce, con la battaglia delle arance, l’attrazione principale della manifestazione.
Come a Binche, il carnevale non è limitato a pochi giorni: ufficialmente si apre il giorno dell’Epifania e si snocciola in una serie di eventi per tutta la sua durata. Ovviamente il più bello arriva alla fine, tra il corteo storico del giovedì grasso al rogo degli “scarli”. Chi non vuole servire da bersaglio per gli aranceri (ogni anno vengono medicate decine di botte, le arance sono dure…) deve indossare un berretto frigio, sorta di calzino rosso che raffigura l’adesione ideale alla rivolta e, pertanto, la brama di libertà.

Per parecchi giorni la città risuona di musiche suonate dalla fanfara di pifferi e tamburi e dalla banda che, in testa al corteo, esegue la Canzone del Carnevale e varie opere sette-ottocentesche. E’ questa banda, tra l’altro, ad annunciare la fine del Carnevale, quando, dopo aver eseguito la Marcia del Generale saluta tutti con “Arvëdse”, arrivederci.
